Il 25 novembre 2022, in occasione delle Giornata Internazionale per il contrasto della violenza sulle donne, l’imprenditrice culturale e attivista per i diritti delle donne Claudia Conte, in collaborazione con A2030 Social Innovation Designers e Roma Città Capitale, per “L’isola che non c’era” inaugura l’esposizione permanente “Women for Justice”.
La mostra, già esposta all’ADI Design Museum di Milano, trova sede permanente all’interno del Complesso di Santa Maria della Pietà, l’ex manicomio più grande d’Europa.


In occasione del “International Justice Day”

Prodotto da Claudia Conte “Far from Shallow Srl SB”


In occasione delle Giornata Internazionale delle Giustizia, l’imprenditrice culturale e attivista per i diritti delle donne Claudia Conte, in collaborazione con ADI Design Museum di Milano presenta
“Women for Justice”, con un particolare focus su Afghanistan e Ucraina.
a cura di Francesca Grisot PhD, “A2030”
Nota curatoriale
La mostra “Women for Justice” nasce con l’intento di costruire una contro-narrazione rispetto a quella fornita dai media riguardo le figure femminili nei contesti di guerra. Solo nell’ultimo anno abbiamo assistito alla narrazione di due conflitti: la presa del potere dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021 e l’invasione dell’Ucraina per mano della Russia nel febbraio 2022.
In entrambi i casi è prevalsa una narrazione maschile, di una guerra al maschile in cui figure e forze maschili si contrappongono. Qualche nota a margine è stata riservata alle figure femminili, per lo più descritte come vittime indifese. Il dibattito si è acceso brevemente quando la figura delle donne ucraine è stata associata a qualifiche professionali quali badante e cameriera. Della condizione delle donne afghane si è approfondito qualche dettaglio in occasione del 21 marzo 2022, quando le scuole non hanno riaperto e bambine e ragazze afghane si sono viste negare il diritto all’istruzione. Non è stato dato, nel dibattito pubblico, il necessario spazio a una realtà femminile profondamente dinamica che negli ultimi vent’anni si è fortemente discostata dagli stereotipi di cui è ancora intrisa la diffusa narrazione occidentale
Tale impostazione è la medesima già denunciata vent’anni fa, nel 2002, dall’antropologa Lila Abu-Lughod all’interno del dibattito “11 settembre e responsabilità etnografica”. Nel saggio “Do Muslim Women Really Need Saving? Anthropological Reflections on Cultural Relativism and Its Others”[1] la studiosa già evidenziava le risonanze dei discorsi contemporanei su uguaglianza, libertà e diritti, con la precedente retorica coloniale e missionaria sulle donne musulmane. Abu-Lughod suggerisce che anziché ostinarci a cercare di “salvare” gli altri (con la superiorità che implica e le violenze che comporterebbe) potremmo pensare in termini di collaborazione, unendo le nostre forze per fronteggiare al meglio situazioni che da sempre conosciamo come soggette a instabilità. L’antropologa sottolinea come dovremmo considerare più seriamente la nostra più ampia responsabilità nell’affrontare le forme di ingiustizia globale, potenti plasmatrici della realtà in cui viviamo.
Con questo medesimo intento, la produttrice Claudia Conte, imprenditrice culturale che promuove la diffusione di una cultura sostenibile in linea con i principi della Agenda 2030 delle Nazioni Unite, ha scelto l’obiettivo 5 come nodo chiave per celebrare, il 17 luglio, la ricorrenza della Giornata internazionale della giustizia (International Justice Day), in commemorazione della adozione dello Statuto di Roma nel 1998. Questa giornata sottolinea l’importanza di combattere l’impunità e di rendere giustizia alle vittime dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio. Temi purtroppo ancora estremamente attuali nelle quotidiane cronache che giungono da Afghanistan e Ucraina, su cui si è focalizzato il centro di attenzione mass-mediatico di questo ultimo anno.
In Afghanistan, dopo un ventennio di pace apparente, la presa del potere dei talebani, il 15 agosto 2021, ha riaperto questioni assopite e mai del tutto risolte nel paese. Prime fra tutte, la questione femminile e la persecuzione etnico-religiosa ai danni di un gruppo sociale specifico: gli hazara. Fin dalla fine del XIX secolo, il popolo hazara è discriminato e perseguitato in Afghanistan per ragioni etniche e di fede. Gli hazara sono musulmani di confessione sciita, componente minoritaria nel mondo islamico, e per questo sono considerati “infedeli” (più o meno lecitamente) dai talebani. Ad aggravare ulteriormente la loro posizione si aggiungono un’appartenenza etnica e una connotazione fisica che li distingue nettamente dal resto della popolazione del Paese. Gli hazara hanno gli occhi a mandorla e vantano una discendenza turco-mongolica che dona loro le sembianze di Gengis-Khan. Sedimentati per lo più nella zona centrale del Paese, nel cosiddetto Hazarajat o Hazaristan, sono stati fin da subito presenti nelle cronache occidentali, da che queste si sono interessate ai talebani. Nel marzo del 2001, infatti, pochi mesi prima dell’attacco alle torri gemelle, i talebani avevano attratto l’attenzione dell’Occidente per la simbolica distruzione dei Buddah di Bamyan, capoluogo dell’Hazarajat.
Ora che i talebani sono tornati al potere, la situazione geopolitica del Paese, in particolare per l’etnia hazara, è tornata ad essere molto pericolosa. Sono frequenti le notizie di attentati, rapimenti e persecuzioni -non sempre, o quasi mai, riportate dalla cronaca occidentale- ai danni di cittadini afghani di etnia sciita e in particolare di giovani ragazze attiviste hazara. In determinate epoche storiche, gli episodi violenti nei confronti di questa etnia erano tanto frequenti da parlare di genocidio. Molte famiglie hanno deciso di migrare, negli anni, raggiungendo paesi limitrofi come Iran e Pakistan, dove hanno creato delle strutturate enclave hazara, senza mai guadagnare completamente il diritto alla cittadinanza e al godimento pieno dei diritti civili.
Con l’intento, quindi, di rendere giustizia alle vittime dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio, si è scelto di dare innanzitutto spazio e voce a quattro giovani donne, fotografe e registe, appartenenti alla etnia hazara, che rappresentano e testimoniano l’evoluzione e le sfide che le loro omologhe hanno affrontato negli ultimi vent’anni. I loro lavori al contempo approfondiscono le prospettive immutate dei territori dell’Hazarajat, nelle sue piú remote province. Le loro biografie sono significative, oltre che per meriti professionali, perché riassumono la storia di un popolo che ha visto le proprie libertà negate, la propria fede condannata, la propria terra ripetutamente invasa e devastata dai kuchi e dalle milizie, tanto da dover migrare e cercare rifugio altrove. Nella selezione delle singole opere esposte ho voluto che fosse lo sguardo femminile di Behnaz Jahed a guidarci nella narrazione e nell’allestimento delle pareti fotografiche. Behnaz Jahed, global shaper del World Economic Forum, operatore legale di Afghanistan Human Rights Commission e case manager e referral presso la Afghanistan Civil Society Forum Organization, per i diritti umani di donne e minori nelle realtà rurali della regione di Herat (Afghanistan occidentale), è riuscita a mettersi in salvo grazie alle operazioni di evacuazione condotte del Governo Italiano nell’agosto 2021. È oggi rifugiata e studentessa borsista UNIPD 4 Afghanistan presso l’Università di Padova al Master in Multilevel Governance and Human Rights.
Una narrazione parallela è stata affidata alle miniature prodotte dalle ricamatrici del progetto Guldusi, della Deutsch Afghanische Initiative: una preziosa iniziativa a favore dell’empowerment femminile, sviluppatasi durante il ventennio di “pace” e fortunatamente non conclusasi con la salita al potere dei talebani. Guldusi , grazie alla determinazione di Pascale Goldenberg, è una delle poche realtà che dà ancora oggi modo, a circa 200 donne residenti in remote aree rurali dell’Afghanistan, di esercitare una forma di attività lavorativa tollerata dai talebani.
Nella selezione degli artisti da coinvolgere per la sezione dedicata all’Ucraina, si è voluto dare risalto a una dimensione storica più ampia, risalendo a un’antica leggenda che colloca al tempo dei Tartari i massacri avvenuti lungo la “rotta nera”. Ancora una volta ho voluto celebrare l’agency delle donne attraverso sguardi femminili di connazionali. La consulenza alla curatela è stata fornita da Maria Nakonechna, artista attiva da decenni per la promozione della cultura ucraina in Italia. L’identificazione del filone del ricamo tradizionale come fil-rouge da seguire, ci ha condotto alla galleria etnografica di Leopoli (Ethno-Gallery Lviv), dove Roxolana Shymchuk ha raccolto preziosi esemplari di costumi tradizionali ricamati a mano da donne ucraine con particolari simbologie. La selezione “Women for Justice” prende in esame in particolare il ricamo così detto “alla Borschchiv”, che ha avuto origine in una piccola area di 60 villaggi adiacenti, nella regione etnografica di Podillia, vicino alla città di Ternopil, nell’Ucraina occidentale. Questi ricami, realizzati con motivi floreali e geometrici scuri, sono lavorati rigorosamente col filo nero, per commemorare il lutto derivante dalle incursioni dei Tartari fra il XV e il XVII secolo. La leggenda narra che tutti gli uomini della regione furono uccisi. Le donne, come un voto alla memoria delle vittime di guerra, promisero di ricamare a lutto per sette secoli (o generazioni). Gli ultimi ricami in nero furono realizzati negli anno 30 del 1900, quando si ritenne esaudito il voto. Alcuni esempi di abiti tradizionali, patrimonio della Galleria di Roxolana Shymchuk, sono immortalati dalla fotografa ucraina Tetyana Erhart, nelle 4 foto esposte in apertura della mostra. Proprio la tradizione del ricamo torna attuale oggi nell’odierno conflitto ucraino, con le donne di Leopoli che confezionano e vendono ricami per raccogliere fondi da inviare ai soldati al fronte.
Fanno da sipario alla mostra, come simbolico benvenuto da parte di un giovanissimo artista italiano, le opere di Sebastiano Furlotti “Una Guernica per l’Afghanistan” e “Per chi suona la campana”.
“Una Guernica per l’Afghanistan”: un imponente arazzo di 9 metri per 4 in cui Sebastiano Furlotti ha voluto raffigurare con elementi simbolici la condizione del popolo afghano che aspira alla libertà. Tra le varie figure, spicca un volto femminile, coperto dal velo, che guarda con desiderio ad un banco, simbolo del diritto all’istruzione.
Francesca Grisot PhD
Francesca Grisot, Presidente e fondatrice di A2030 OdV, dottoressa di ricerca in Lingue Culture e Società, Antropologa professionista ANPIA di cui coordina la Commissione Migrazioni e Mobilità, Subject Expert presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, Research Network Member del progetto ASYFAIR sul diritto d’asilo in Europa, Segretaria di redazione della rivista scientifica in fascia A ANVUR “Ermeneutica letteraria. Rivista internazionale” e già docente di Metodologia preventiva per il sociale all’Università IUSVE di Venezia, ha condotto, tra il 2006 e il 2013, una ricerca etnografica lungo la rotta migratoria dei richiedenti asilo afghani MSNA. Progettista, consulente e formatrice per il terzo settore in ambito accoglienza e immigrazione, mediatrice linguistico-culturale di lingua farsi, dari e di cultura islamica, ha curato, nel 2008, la traduzione e l’introduzione delle poesie contenute nel taccuino di Zaher Rezai, oggetto della pubblicazione “Il viaggio di Zaher. Percorso interculturale di cittadinanza e solidarietà”, (Edizioni la meridiana, 2020), che raccoglie in forma divulgativa le ricerche condotte durante il Dottorato in Lingue Culture e Società sulla rotta della migrazione afghana.
[1] Abu-Lughod, Do Muslim Women Really Need Saving? Anthropological Reflections on Cultural Relativism and Its Others in «American Anthropologist» Vol. 104, No. 3, September 2002, pp. 783-790.

Opere in mostra
PARETE 1 – WALL 1
TAHMINA ALIZADA




- Il melograno é vivo / The Pomegranate is alive, 1, 2020
- La mia identità non è nascosta / My identity is not hidden,1, 2018
- Il melograno é vivo / The Pomegranate is alive, 2, 2020
- La mia identità non è nascosta / My identity is not hidden, 2, 2018
BIOGRAFIA DI TAHMINA ALIZADA
HABIBEH Alizadeh (nome d’arte: Tahmina Alizada), è nata in Iran nel 1989, da una famiglia di rifugiati afghani che hanno lasciato il paese in seguito all’invasione sovietica del 1978, poiché appartenenti a un gruppo etnico perseguitato per motivi religiosi ed etnici. Ha vissuto una condizione di esilio fin dalla nascita e dopo 28 anni ha deciso di fare ritorno in patria per dare un piccolo contributo alle sorti della sua gente, nella gioia e nel dolore,
In Iran ha portato Avanti gli studi fino al livello di laurea magistrale in studi religiosi, non conclusa. Si è poi dedicata allo studio della fotografia. In Iran ha preso parte a una esposizione collettiva in cui ha messo in atto una performance artistica intitolata “We are all”. In Afghanistan ha esposto nella sua prima personale intitolata “Il melograno è vivo”. I suoi servizi fotografici sono stati pubblicati in diverse riviste. Nel corso dei tre mesi successivi alla caduta di Kabul, ha realizzato un reportage sulle proteste delle donne afghane. Oggi Tahmina ha 33 anni e vive a Monaco, in Germania.
HABIBEH Alizadeh (artistic name: Tahmina Alizada), was born in 1989 in Iran, from Afghan refugees after the Soviet invasion of Afghanistan in 1978, because her family belongs to an ethnic group persecuted for religious and ethnic reasons. She started her life as an immigrant and after 28 years she decided to return to her homeland and be able to make a small contribution to the sorrow and happiness of my people.
In Iran She continued her education at the level of master of theology, but she let it unfinished, then devoting himself to the study of photography. In Iran she participated in a group photo exhibition and she performed an art performance entitled “We are all”. In Afghanistan she had the first solo exhibition entitled “Pomegranate is alive”. She has photographed for various foreign magazines and recorded the protests of Kabul women for three months after the Kabul’s fall. She is now 33 and she lives in Munich, Germany.
Testimonianza dell’artista
Le foto selezionate sono tratte dalle collezioni “IL MELOGRANO È VIVO” e “LA MIA IDENTITÀ NON È NASCOSTA”. In queste raccolte, ho cercato di ricorrere a dei simboli per rappresentare l’indipendenza dell’identità femminile, ma anche le difficili situazioni di costrizione cui le donne sono sottoposte per vincoli tradizionali o contemporanei. Anar (Melograno) e il chiodo: ognuno di loro ha una sua identità ben definita nel mondo reale e li ho scelti perché offrivano il messaggio simbolicamente più prossimo al mio intento artistico. In questa selezione, Anar è un simbolo dell’identità indipendente della donna: simboleggia la potenza rivoluzionaria femminile, già che nulla può impedirle di incrinarsi quando è maturata. Pur nel mezzo di tutte le difficili condizioni che le vengono imposte, ella continua a difendere la propria identità ad ogni costo. Anar è una donna che, senza aspettarsi nulla in cambio, cerca di sostenere il mondo che la circonda, diffondendo gentilezza, rassicurazione e umanità, grazie al suo istinto materno e di cura. Il chiodo in queste foto simboleggia gli ostacoli che esistono sulla strada delle donne; pressioni che cercano di ostacolare in ogni modo il suo sviluppo, con un effetto deterrente sul suo corpo e sulla sua anima. Nonostante ciò, le donne della mia società, per una fatale coesistenza in loro del senso di maternità e dello spirito rivoluzionario, si oppongono ai chiodi e ai limiti imposti, difendendo la loro identità come un diritto inalienabile. Sono donne che desiderano la pace e la libertà e con le loro scelte intendono preservare le conquiste degli ultimi vent’anni, lavorando ancora per il progresso del paese e della società. Il loro sforzo è volto a preservare la propria identità e indipendenza e non intendono tornare indietro.
Allo stesso modo il ricorso alla nudità femminile è funzionale a veicolare un messaggio ben preciso: di nuovo l’identità indipendente e libera di una donna, spogliata delle etichette assegnatele dalla società. Nella nostra società parlare di libertà femminile equivale a parlare di prostituzione. Sicuramente la nudità che ho ritratto in questi soggetti agli occhi della società tradizionale e religiosa equivale a un peccato imperdonabile. Tutto, nella loro visione, è condizionato da questo filtro. Affermo ciò in base alla mia personale esperienza nel trattare con diverse componenti della società tradizionale e religiosa. Ci sono certamente delle eccezioni, ma si può dire che ciò che prevale è una visione maliziosa e superstiziosa.
Posso dire chiaramente che la totale opposizione alla libera dimensione identitaria delle donne è legata alla stagnazione intellettuale e all’assenza di pensiero umanizzante. In quest’opera, il cappello tradizionale rappresenta una realtà limitante e prevalente. Testimonio ciò che ho visto e vissuto. In quanto donna sono tenuta a sottostare alle regole della religione e della società, che decidono in merito alla mia identità, libertà e al mio corpo. Loro stabiliscono le regole e io devo obbedire per tutta la vita come un soldato. Da un po’ di tempo però noi donne ci siamo ribellate e lottiamo per la nostra identità, per essere regine delle nostre stesse vite. Il volto, volutamente nascosto, allude al fatto che la donna è nascosta nel suo mondo interiore.
“ANAR IS ALIVE” and “MY IDENTITY IS NOT HIDDEN” In this selection of photos, I have tried to use the symbols as an independent female identity and the existing conditions on traditional and modern constraints. The Anar (Pomegranate) and the nail, each of them has its own defined place in the real world, were the closest symbols to my subject matter, given my artistic concern.
In this collection, the Anar is a symbol of a woman’s independent identity. It symbolizes a female revolution in which, when it became matures, nothing can stop it from cracking, and in the midst of all the difficult conditions that are imposed on it, it continues to defend its identity in different ways. Anar is a woman who without any expectations, tries and support the world around her to be kinder, to calm down and to become human, due to her motherly feelings and support.
But the nail in these photos is a symbol of the obstacles that exist in the way of women and tries to hinder her in any amount and in any way and has a negative and deterrent effect on a woman’s soul or body. Nonetheless, the women of my society, given their sense of motherhood and revolutionary sense, struggle with the limiting and defective nails in their lives to defend their identity, which is their inalienable right. And to show everyone that they are looking for their own independent identity and for building their own world and creating a world of peace where everyone respects others while maintaining their independent character. They are women who want peace for freedom in their choices and will never destroy the achievements of the last twenty years. Rather, they want to increase the progress of new successes and will never go backwards.
The nudity of a woman in pictures has only one message, and that is to see and understand a woman’s independent and free identity, far from the titles that those around her have labeled. In our society, freedom is equal and means prostitution and restraint, especially for Afghan women, and surely this nudity that I have portrayed with my subject in the eyes of the traditional and religious society is equal to a great and unforgivable sin because society It teaches us that nakedness is a great and far-fetched sin, and that whatever passes from their point of view must pass through this filter. This statement and claim that I make is the result of living with this society and the experience of dealing with different groups of this society, and there are certainly exceptions, but this view of the general traditional and religious society is superstitious. I can clearly say that complete opposition to the gender and identity of women is intellectual stagnation and lack of development of human concepts.
In this work, the traditional hat represents a limiting and prevailing reality. The fact that I saw it and lived it. I can say that my position as a woman in my society is such a position, the rule of tradition and religion over my free and independent identity and my body, they decide for me and I just obey the orders of others for my life like a soldier. But this has been for a while now, we Afghan women have come to the fore by preserving our human identity and being women, and we are the queen of our lives. The absence of a face indicates that the woman is hiding in her inner world
PARETE 1 – WALL 1
TETYANA ERHART




- Solomiya, Ucraina/Ukraine, 2018
- Galychanka, Ucraina/Ukraine, 2021
- Famiglia ucraina / Ukrainian family, Ucraina/Ukraine, 2022
- Olga, Ucraina/Ukraine, 2022
BIOGRAFIA di Tetyana Erhart
Tetyana Erhart è una fotografa professionista di Leopoli, Ucraina, dove attualmente vive e lavora. È specializzata in ritratti pittorici di donne e lavora magistralmente con luci naturali e da studio. Tetyana crede che la fotografia sia un modo per preservare l’energia e le emozioni di una persona in un momento particolare. Le foto fanno rivivere sentimenti che una volta si sentivano. Le mani di una madre in un ritratto possono evocare l’amore materno e possono sempre riportarci ai ricordi più belli della vita: quando ti ha portato una tazza di caffè preparata da lei l’ultima volta che l’hai visitata, o una ciotola di porridge quando eri malato da bambino. Le coppie possono anche rivisitare la loro memoria condivisa quando passano attraverso immagini di se stesse in passato, collegandole all’essenza della loro relazione. Col passare del tempo i sentimenti scompaiono, ma la fotografia ci riporta alle nostre esperienze per rivivere il meglio della nostra esistenza. È la nostra connessione personale con il passato che migliora la nostra energia attuale attraverso la fotografia. Tetyana ha realizzato questa serie di ritratti di giovani donne ucraine in abiti tradizionali. Le modelle sono le giocatrici di pallamano della squadra di pallamano femminile di Leopoli Halychanka. L’abbigliamento e gli accessori provenivano dalla collezione privata di Roksolyana Shymchuk, che ne è anche la stilista. Tetyana padroneggia le abilità nel dirigere le modelle facendole sentire profondamente a proprio agio. Questo è ciò che fa emergere il meglio di loro davanti all’obiettivo, dando vita a scatti senza tempo delle storie che ognuno di noi vuole raccontare al mondo. Tetyana ha studiato l’arte della fotografia e del ritocco con professionisti britannici, americani e tedeschi, nonché con la famosa fotografa ritrattista Sue Bryce. Ha anche frequentato workshop di fotografia in Germania e Polonia. Nel 2015 ha creato il proprio studio fotografico, che nel 2020 è cresciuto fino a diventare ERTE Creative Group. Per diversi anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti professionali dai Portrait Masters Awards. Tetyana ha esposto per la prima volta le sue opere in Austria nel 2009. I suoi ritratti di donne e bambini sono stati esposti al Palazzo Potocki a Leopoli nel 2018.
Tetyana Erhart is a professional photographer from Lviv, Ukraine, where she currently lives and works. She specializes in painterly portraits of women and works masterfully with both natural and studio lights. Tetyana believes that photography is a way to preserve a person’s energy and emotions at a particular moment. Photos revive feelings that were once felt. A mother’s hands in a portrait can evoke maternal love and can always bring us back to the most beautiful memories in life: when she brought you a cup of coffee prepared by herself the last time you visited her, or a bowl of porridge when you were sick as a child. Couples can also revisit their shared memory when they go through pictures of themselves in the past, connecting them to the essence of their relationship. As time passes, feelings disappear, but photography brings us back to our experiences to relive the best of our existence. It is our personal connection with the past that enhances our current energy via photography. Tetyana made this series of portraits of Ukrainian young women in traditional clothing. The models are the handball players in the Lviv women’s handball team Halychanka. The clothing and accessories were from the private collection of Roksolyana Shymchuk, who was also the stylist. Tetyana masters the skills in directing models so that they feel comfortable from within. This is what brings out the best of them in front of the camera, creating a timeless record of the stories each of us wants to tell the world. Tetyana studied the art of photography and retouching with British, American, and German professionals, as well as famous portrait photographer Sue Bryce. She also attended photography workshops in Germany and Poland. In 2015, she created her own photography studio, which grew into the ERTE Creative Group in 2020. She has received numerous professional recognitions from the Portrait Masters Awards for several years. Tetyana first exhibited her works in Austria in 2009. Her portraits of women and children were exhibited at the Potocki Palace in Lviv in 2018.
Testimonianza di Roksolyana Shymchuk
La camicia Borshchiv è un tipo speciale di ricamo che si è sviluppato come fenomeno artistico nelle regioni della Podillia occidentale dell’Ucraina (ora distretto di Borshchiv nella regione di Ternopil). Il ricamo Borshchiv è un’opera indiscutibile dell’arte popolare ucraina. Il suo aspetto risale a secoli fa, il numero delle tecniche utilizzate, la densità e la ricchezza del ricamo, il lavoro manuale nella fabbricazione di tutti gli elementi e materiali (compresi fili e tele) impressionano la fantasia e il gusto estetico degli esperti più esigenti! Va notato che, di regola, per ricamare una camicia borscht venivano usati fili di lana neri naturali, quindi le camicie che hanno più di 100-150 anni non hanno perso il loro colore e spesso sembrano fatte ieri! Dopotutto, il colore di una pecora nera è una tintura naturale che non sbiadisce al sole nemmeno per secoli.
C’è una leggenda secondo cui l’apparizione di questa tradizione risale ai tempi in cui le incursioni del giogo tataro-mongolo venivano effettuate sulle terre ucraine e in un certo periodo storico, quando un gran numero di uomini furono uccisi durante un’altra invasione, i bambini furono rapite, e le donne furono “ridotte in schiavitù”, coloro che rimasero su queste terre giurarono per 7 generazioni di indossare camicie ricamate con filo nero anche per matrimoni e feste. Questa leggenda sopravvive ancora oggi (è un mito, perché possiamo considerare come fatti storici solo ciò che è documentato), ma è possibile che eventi così tragici siano realmente avvenuti in queste terre e abbiano dato impulso allo sviluppo della tradizione etnica di ricamo in nero – il colore della terra natale e il lutto per i propri cari.
Inoltre, questa non è l’unica regione in cui la dominazione nera ha acquisito una tradizione stabile. La cosiddetta “Via Nera” è seguita dalle terre della Podillia centrale dell’Ucraina (ora regioni di Vinnytsia e Khmelnytskyi) all’Oblast’ di Leopoli (via Sokal) – questa è l’Ucraina occidentale. Il “percorso nero” era anche chiamato “il sentiero di Yasir”. Gli attacchi dei tartari di Perekop ebbero luogo dal XV al XVIII secolo durante numerose guerre con il Khanato di Crimea per le terre ucraine.
Secondo un’altra versione, “Black Way” è sinonimo del concetto di “Great Way”, poiché nelle lingue turche la parola kara (nero) è sinonimo di grandezza. Dopotutto, grandi rotte commerciali hanno attraversato queste terre fin dall’antichità. Non importa quanto sia segreta la storia della camicia borscht, dovresti sapere una cosa: è un’opera d’arte popolare senza precedenti e l’Ucraina ha già iniziato il processo per riconoscere la camicia borscht come patrimonio immateriale dell’UNESCO. Ma, come in molti dei nostri sforzi, la guerra ce lo ha impedito.
Ucraina, luglio 2022
The Borshchiv shirt is a special type of embroidery that developed as an artistic phenomenon in the regions of Western Podillia of Ukraine (now the Borshchiv district of the Ternopil region). Borshchiv embroidery is an indisputable work of folk art of Ukraine. Its appearance goes back centuries, the number of techniques used, the density and richness of embroidery, the manual work in the manufacture of all elements and materials (including threads and canvas) impresses the imagination and aesthetic taste of the most demanding experts! It should be noted that, as a rule, black woolen threads were used to embroider a borscht shirt, and therefore shirts that are more than 100-150 years old have not lost their color and often look as if they were made yesterday! After all, the color of a black sheep is a natural dye that does not fade in the sun even for centuries.
There is a legend that the appearance of this tradition dates back to the times when the Tatar-Mongol yoke raids were carried out on Ukrainian lands and in a certain period of history, when a large number of men were killed during another invasion, children were kidnapped, and women were “enslaved” (taken into slavery ), those who remained on these lands swore for 7 generations to wear shirts embroidered with black thread even for weddings and holidays. This legend lives on to this day (it is a myth, because we can consider only what is documented as historical facts), but it is possible that such tragic events really took place in these lands and gave impetus to the development of the ethnic tradition of embroidery in black – the color of the native land and mourning for loved ones.
In addition, this is not the only region where black dominance has acquired a stable tradition. The so-called “Black Way” is followed from the lands of Central Podillia of Ukraine (now Vinnytsia and Khmelnytskyi regions) to Lviv Oblast (via Sokal) – this is Western Ukraine. “Black path” was also called “Yasir’s path”. Attacks by the Perekop Tatars took place from the 15th to the 18th centuries during numerous wars with the Crimean Khanate for Ukrainian lands.
According to another version, “Black Way” is synonymous with the concept of “Great Way”, as in Turkic languages the word kara (black) is synonymous with greatness. After all, great trade routes have passed through these lands since ancient times. No matter how secretive the history of the borscht shirt is, you should know one thing – it is an unparalleled work of folk art, and Ukraine has already begun the process of recognizing the borscht shirt as an intangible heritage of UNESCO. But, as in many of our endeavors, the war prevented us.
(Ukraine, July 2022)
PARETE 2 – WALL 2
ROYA HEYDARI










- Bambini nella luce / Children in the light, Nangarhar, 2020
- Il sorriso perduto / The lost smile, Kabul, 2020
- Curiosità e incomprensione / Curiosity and Incomprehension, Nangarhar, 2020
- Donna che lavora a un tappeto fatto a mano / Woman’s working on a handmade carpet, Kabul 2019
- Paura, Speranza e tristezza / Fear, hope and sadness, Badakhshan, 2020
- Danzando in circolo / Dancing in circles, Deh Sabz Kabul, 2020
- La ragazza sulla montagna / The girl in the mountain, Daikundi, 2019
- Cortile di una scuola / Courtyard of a school, Kama Nanagarhar, 2021
- Una donna con i suoi gemelli / A woman with her twins, Sangtakht, (un remoto villaggio tra le montagne / a village located in a very far district in Daikundi between the mountains), 2019
- Danza, simboli e libertà / Dance, symbols and freedom, Bamyan, 2020
BIOGRAFIA DI ROYA HEYDAR
Roya Heydari è una fotografa e regista afghana con un’esperienza professionale decennale. Racconta con un approccio realista il suo Paese, l’Afghanistan, concentrandosi principalmente su donne e bambini. Ha voluto inoltre ritrarre le sfide che per secoli le persone hanno dovuto affrontare a causa della guerra senza fine in corso in Afghanistan. Roya ha lavorato con diverse prestigiose organizzazioni nazionali e internazionali e ha completato incarichi come fotoreporter freelance.
Gli scatti migliori li ha ottenuti come fotografa freelance in viaggio da sola. I bambini sono uno dei suoi soggetti preferiti quando si tratta di fotografia. Ogni angolo dell’Afghanistan ha la sua cultura e il suo stile di vita unici. I bambini sono la parte più pura di una comunità che riflette il vero significato dei valori della vita. Indipendentemente dall’obiettivo del reportage, Roya non riesce a non scattare almeno un paio di foto dei bambini che la circondano. Non importa il luogo e le condizioni, l’unica cosa che conta sono le persone alla fine della giornata. Quando Roya ha deciso di intraprendere la sua professione di fotografa, ha voluto mostrare la bellezza dell’Afghanistan attraverso la sua gente. Diversi artisti e media hanno prodotto narrazioni diverse sull’Afghanistan, ma si sono concentrati poco sul popolo afghano.
La guerra ha portato solo alla distruzione dell’Afghanistan, non alla definizione del suo popolo. Roya ha usato la sua professione per rappresentare la situazione dell’Afghanistan e del suo popolo, ma è stata anche in grado di aiutare diverse persone attraverso la sua rete, raccogliendo fondi per le persone più bisognose, residenti in aree remote del paese. Attraverso il suo account Instagram, Roya ha potuto aiutare una vedova di 85 anni che ha perso i suoi figli in guerra e ha dovuto prendersi cura delle sue nuore e dei loro figli in un villaggio molto remoto nella provincia di Nangarhar.
Roya ama essere una fotografa, anche se nel cogliere alcuni scatti, il suo cuore ha pianto dietro la sua macchina fotografica, assistendo a ciò che la sua gente deve sopportare in aree in cui non ha accesso ai servizi essenziali. Roya ha dovuto fuggire dalla sua terra natale dopo la caduta di Kabul nell’agosto 2021. Attualmente si trova a Parigi in Francia e sta cercando di rafforzare la sua professione e dare visibilità alle sue opere.
Roya Heydari is a photographer and filmmaker from Afghanistan with a decade of professional experience. She tells the stories of the ground realities of Afghanistan and primarily focuses on women and children. In addition, she has portrayed the challenges people face because of the endless war going on in Afghanistan for ages. Roya has worked with multiple prestigious national and international organizations and completed assignments as a freelance photojournalist. Her best works have been as a freelancer when she is alone in the journey of producing images. Children are one of her favorite subjects when it comes to photography. Each corner of Afghanistan has its own unique culture and way of life. The children are the purest part of a community that reflects the true meaning of life’s values. No matter her assignment, she cannot stop taking a couple of children’s photos around her. No matter the place and the conditions, the only thing that matters is the people at the end of the day. When Roya decided to pursue her profession as a photographer, she wanted to showcase the beauty of Afghanistan through her people. Several artists and media outlets have produced different narratives about Afghans but little focus on the people of Afghanistan. War has only been the destruction of Afghanistan, not the definition of Afghans. Roya has been using her profession beyond only portraying the situation of Afghanistan, and she has been able to help several people through her network by raising funds for the needed ones in remote areas. Through her Instagram account, Roya was able to help an 85-year-old widow who lost her sons in the war and had to take care of her daughters-in-law and their children in a very remote village in Nangarhar province. Roya enjoys being a photographer, although she has wept behind her camera during the photography by witnessing what our people have been going through in areas where they have no access to the essential services. Roya had to flee her homeland after the fall of Kabul in August 2021. She is currently in Paris in France and pursuing to strengthen her profession and showcase her works.T
Testimonianza dell’artista
Le mie foto vogliono essere una testimonianza di persone che vivono in Afghanistan, lontane dalla guerra e dagli orrori sempre raffigurati nei media, eppure così legate ad esse. Sono cresciuta in un paese dilaniato dalla guerra e conteso da diversi paesi. L’Afghanistan però non è solo questo; è molto di più. Questo pezzo di terra è così ricco di culture e di storia. Le mie foto sono solo una modesta prova di questa meravigliosa complessità.
La fotografia è un mezzo per raggiungere un fine. Voglio mostrare ciò che resta di un paese distrutto da decenni di guerra; e ciò che resta sono le persone. Non c’è giudizio nelle mie foto, nessuna vittima. Solo persone che vivono con le carte che hanno ricevuto. C’è un focus privilegiato però: i bambini. Mi concentro su di loro perché la speranza è l’unica cosa che rimane in così tante persone. I bambini arrivano e in un attimo rimuovono ogni distanza tra noi e il futuro. Sono l’incarnazione della speranza, e lo sono per il semplice motivo che non ne sono consapevoli.
Le mie foto sono gioiose. La guerra non ha tolto il sorriso dai loro volti. Giocano nei campi e il loro mondo è semplicemente senza confini. E se guardi abbastanza da vicino nei loro occhi, vedrai te stesso e altro ancora.
My pictures are meant as a testimony of people living in Afghanistan, far from war and horrors as it is always pictured in the media, and yet so connected to it. I grew up in a war-torn country disputed by different countries, but Afghanistan is much more than that. This piece of land is so rich with cultures and history. My pictures are just a mere evidence of this wonderful complexity.
Photography is a means to an end, I want to show what’s left of a country destroyed by decades of war, and what remains is the people. There is no judgement in my pictures, no victims. Just people living with the cards they’ve been dealt. There is a bias though: kids. I focus on them because hope is the only thing that remains in so many people. Kids come and remove all distance between us and the future. They’re the embodiment of hope, for the only reason that they are not aware of it.
My pictures are joyful. War has not removed the smile out of their faces. They play in the fields and their world is just borderless. And if you look close enough in their eyes, you’ll see yourself, and more.
PARETE 3 – WALL 3
Fatimah Hossaini



La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2019









- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2019
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Bamyan, Afghanistan, 2019
- Quella che sono, quella che non sono / The one who is me, the one who is not me, Mashhad, Iran, 2015
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2021
- Il burqa dietro al volante / Burqa behind the steering wheel, Tehran, Iran, 2015
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2020
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2021
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2019
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2020
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2019
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2021
- La perla nell’ostrica / Pearl in the Oyster, Kabul, Afghanistan, 2019
BIOGRAFIA DI Fatimah Hossaini
Fatimah Hossaini, artista afghana-teheran, fotografa, curatrice ed espositrice. È la più giovane tra le prime 10 vincitrici del premio internazionale Hypatia che premia l’impegno nel campo della ricerca, dell’arte e delle professioni. Ha conseguito il Bachelor of Arts in Photography presso l’Università di Teheran, dopo la sua prima laurea in ingegneria industriale. Ha insegnato presso la Facoltà di Arte dell’Università di Kabul dal 2018 al 2019. Fatimah ha sostenuto con il suo lavoro i diritti delle donne e dei rifugiati su varie piattaforme nazionali e internazionali. Il suo lavoro racconta potenti storie di identità e femminilità in Afghanistan. Sebbene il colore e la passione siano i principali motori del suo successo nelle sue opere d’arte, è specializzata in Staged photography. Grazie alla sua passione e ammirazione per le arti, il suo lavoro è stato presentato ed esposto in mostre collettive e festival d’arte in Iran, Afghanistan, India, Turchia, Cina, Giappone, Corea del Sud, Austria, Danimarca, Italia, Albania, Francia, New York e altri luoghi ancora. Inoltre, le opere e gli articoli di Fatimah sono stati stampati e pubblicati in pubblicazioni locali e transnazionali e promosse da BBC, Guardian, Aljazeera, LensCulture, TRT World, Bloomberg, Business Insider, Outriders, NRK, Sydasien, Art Present, Le Figaro Magazine, L’eclectique Mag, Chiiz mag, CIIN Magazine, Nytt Mag e molti altri. È fondatrice di Mastooraat Art Organization (fondata nel 2019), un’organizzazione artistica che promuove e sostiene sia la valorizzazione che la creazione dell’arte sotto lo slogan “arte, donne e pace”. Sostiene le artiste in Afghanistan, attraverso borse di studio e workshop, organizzando vertici sull’arte e la pace, curando mostre d’arte e partecipando a conferenze globali attraverso l’arte, la pace e il genere.
Fatimah Hossaini, Afghan-Tehran born Artist, photographer, curator and exhibitioner. She is the youngest among 10 first winner of the Hypatia international award which reward to the commitment in the field of Research, art and professions. She received her Bachelor of Arts in Photography from University of Tehran after her first bachelor in Industrial engineering. She Taught at art Faculty of Kabul University from 2018-2019. Fatimah has worked and advocated on Women and refugee rights on national and international platforms. Her work tells powerful stories of identity and femininity in Afghanistan. Although color and passion are the main drivers of her success in her artwork, she specializes in Staged photography. Due to her passion and admiration of arts, Her work has been featured and displayed in group exhibitions and art festivals in Iran, Afghanistan, India, Turkey, China, Japan, South Korea, Austria, Denmark, Italy, Albania, France, New York and more. Additionally, Fatimah’s works and articles has been printed and featured in local and transnational publications. and it has been featured by BBC, Guardian, Aljazeera, LenseCulture, TRT world, Bloomberg, business insider, outriders, NRK, Sydasien, Art represent, Le’ Figaro Magazine, L’eclectique Mag. Chiiz mag, CIIN Magazine, Nytt mag, Held collective and so many more. She is Founder of Mastooraat Art Organization (established in 2019), an art organization fostering and supporting both appreciation and creation of art, women and peace: supporting female artists in Afghanistan, through scholarships and workshops, organizing art and peace summited, curating art exhibitions and attending global conferences through art, peace and gender.
Testimonianza dell’artista
BURQA DIETRO IL VOLANTE
Le donne in Afghanistan hanno sempre dovuto affrontare le restrizioni della società, alcune delle quali sono profondamente radicate nella cultura dell’Afghanistan. Anche quando le donne vivono geograficamente lontane rispetto all’Afghanistan, ereditano in una serie di pratiche incorporate dalle proprie madri che le tengono legate ai luoghi d’origine alle loro tradizioni. Alcune possono scegliere di infrangere quei tabù e mettere in atto la vita che desiderano; altre invece non avranno mai la possibilità di godere della libertà che segnano.
In questa collezione viene mostrata una donna che rompe intenzionalmente i tabù, esce dall’ombra che l’ha sempre nascosta e sceglie di vivere la vita che più desidera: guida liberamente per le strade, si trucca e fa ciò che si sente. Eppure il suo orizzonte è limitato a quel mondo che essa stessa incarna nello specchio in cui è riflessa. Fuori dello specchio il mondo è diverso. In una società in cui è precluso alle donne mostrare liberamente la loro bellezza, la femminilità stessa è una sfida. Sono proprio la bellezza e la volontà di essere bella che la spingono cogliere la sfida e ad uscire dall’ombra che nasconde il suo coraggio e la sua bellezza. In questa collezione, viene mostrata una donna che vive fra le tradizioni e la modernità; una donna la cui bellezza è costretta all’interno dello specchio, mentre fuori di esso un burqa le coprirà il viso.
LA PERLA NELL’OSTRICA
In questa raccolta fotografica, di cui sono ancora in corso le riprese, sono stati ritratti diversi volti di donne afghane, in diversi luoghi tradizionali, con i loro abiti esclusivi. La loro bellezza e la loro femminilità vengono esibite come incorniciate in una vetrina delle differenti culture e tradizioni dell’Afghanistan. Questi soggetti peculiari, oltre a rappresentare una rottura dei tabù e dei cliché delle donne afghane con burqa, sono ritratti in modo provocatorio con abiti tradizionali regionali, per mostrare la bellezza delle donne e delle differenti culture dell’Afghanistan. Gli scatti insistono sugli sguardi calmi, timidi, civettuoli e femminili evocanti le bellezze nascoste delle donne afghane. Puntando sui contrasti di colore e sull’intensità degli sguardi, questa collezione cerca di evidenziare la bellezza della femminilità, in particolare delle donne afghane, proponendo una riflessione sul diverso volto delle donne afghane, solitamente viste come vittime o soggetti devoli. Verranno mostrati la bellezza, il potere e la resilienza delle donne afgane.
QUELLO CHE SONO, QUELLO CHE NON SONO
Questa performance fotografica è una storia di migrazione, genere e identità, con cui sono sempre stato messo alla prova. In questa esibizione ho indossato un burqa, sono scesa in strada e ho vissuto come una donna afgana per 45 minuti. Ho fatto questa performance in collaborazione con Tahmina Alizada a Mashhad, Iran.
PARETE 4 – WALL 4
Sahraa Karimi




- Donne in blu / Women in Blue, Central Afghanistan, Daikundi, 1, 2016
- Donne in blu / Women in Blue, Central Afghanistan, Daikundi, 2, 2016
- Donne in blu / Women in Blue, Central Afghanistan, Bamyan, 1, 2016
- Donne in blu / Women in Blue, Central Afghanistan, Bamyan, 2, 2016
BIOGRAFIA DI SAHRAA KARIMI
Sahraa Karimi è una regista afgana che ha vissuto e studiato in Iran fino all’età di 16 anni. Per la prima volta, all’età di quattordici anni, ha recitato nel film Le figlie del sole di Maryam Shahriar, in uno dei ruoli principali. Con questo film è entrata nel mondo del cinema professionale iraniano. È stata la prima ragazza immigrata afgana a recitare un ruolo da co-protagonista nel cinema iraniano. Con la sua seconda esperienza di recitazione in White Sleep di Hamid Jebeli – importante regista iraniano – si è interessa ancora maggiormente all’arte del cinema. All’età di 17 anni Sahraa Karimi emigrò nella Repubblica Slovacca per continuare i suoi studi. Lì ha studiato per più di dieci anni nel campo del cinema. (Registra di documentari e fiction). Come prima donna nella storia dell’Afghanistan, ha conseguito un diploma accademico (PhD) in cinema presso l’Accademia di musica e arti dello spettacolo – Facoltà di cinema e TV di Bratislava, in Slovacchia.
Sahraa Karimi ha realizzato più di 30 cortometraggi di fiction e documentari durante i suoi studi, alcuni dei quali hanno vinto numerosi premi in festival cinematografici internazionali. Il suo film, Afghan Women behind the wheel, è stata la sua prima esperienza cinematografica nel cinema documentario in Afghanistan. Il film ha partecipato a 22 festival cinematografici e ha vinto più di 5 premi internazionali nei principali festival di tutto il mondo, tra cui la nomination come miglior documentario dell’anno nella Repubblica di Slovacchia, è stato trasmesso anche sulle principali reti televisive europee tra cui Arte France e BBC. Parlika- A Woman in the Land of Men, un film ispirato alla vita della signora Soraya Parlika, un’attivista per i diritti delle donne in Afghanistan, offre uno sguardo approfondito alla storia di quattro decenni di violenza contro le donne in Afghanistan. Ha vinto il miglior film documentario nella categoria Donne cineaste al Dhaka-Bangladesh International Film Festival.
Sahraa Karimi è stata la prima regista donna afghana a diventare un membro ufficiale dell’Accademia slovacca di cinema e televisione, dopo aver vinto lo Slovak Film and Television Academy Award con il film Light Breez. Il diario di una ragazza immigrata, che è stato presentato in anteprima mondiale al Festival del Cinema Mostra di Venezia ed è stato nominato come Miglior Film nella Official Competition Horizons. Il suo film Hava, Maryam, Ayesha ha ricevuto il premio come miglior attore per tutte e tre le attrici del film dal Los Angeles Asian Film Festival e dal Dhaka International Film Festival Bangladesh. Hava, Maryam, Ayesha ha partecipato a più di 38 festival cinematografici internazionali per conto dell’Afghanistan. Ha rappresentato il primo accesso dell’Afghanistan all’Oscar nel 2020 ed è stato l’unico film del cinema afghano proiettato nelle sale in Iran per cinque mesi. Sahraa Karimi è stata anche la prima donna nella storia dell’Afghanistan a diventare General Director of Afghan Film, dichiarata organizzazione cinematografica attraverso un processo di merito nel 2019. Attualmente sta lavorando alla sua prossima fiction Volo da Kabul.
Sahraa Karimi is an Afghan film director who lived and studied in Iran until she was 16 years old. For the first time at the age of fourteen, she starred in a movie Daughters of the Sun by Maryam Shahriar as one of the leading roles. With this movie she entered the world of Iranian professional cinema. She was the first Afghan immigrant girl to play a leading role in Iranian cinema. With her second acting experience in White Sleep by Hamid Jebeli – prominent Iranian film director- she became more interested in the art of cinema. At the age of 17 Sahraa Karimi immigrated to the Slovak Republic for the continuing of her study. She studied there for more than ten years in the cinema field. (Documentary and fiction filmmaking). As the first woman in Afghanistan history, she holds an academic degree (PhD) in cinema from Academy of Music and Performing Arts- Film and TV Faculty in Bratislava, Slovakia.
Sahraa Karimi has made more than 30 short fiction and documentary films during her study, some of which have won numerous awards at international film festivals. Her film, Afghan Women behind the wheel, was her first feature film experience in documentary cinema in Afghanistan. The film participated in 22 film festivals and won more than 5 international awards at major festivals around the world, including being nominated for Best Documentary of the Year in the Republic of Slovakia, it has also broadcasted on major European television networks including Arte France and the BBC. Parlika- A Woman in the Land of Men, a film inspired by the life of Mrs. Soraya Parlika, a women’s rights activist in Afghanistan, takes a deep look at the history of four decades of violence against women in Afghanistan. It won the best documentary film in Women filmmakers’ category at Dhaka-Bangladesh International Film Festival.
Sahraa Karimi, has become the first female filmmaker from Afghanistan to become an official member of the Slovak Academy of Film and Television, after winning the Slovak Film and Television Academy Award for the film Light Breez, a diary of an immigrant girl. its world premiere at the 76th Venice International Film Festival and was nominated for Best Film in the Official Competition Horizons. Her film Hava, Maryam, Ayesha received the Best Actor Award for all three actresses of the movie from the Los Angeles Asian Film Festival and the Dhaka International Film Festival Bangladesh. Hava, Maryam, Ayesha has participated in more than 38 international film festivals on behalf of Afghanistan. It was Afghanistan’s entry in Oscar 2020 and the only film from Afghanistan cinema that has been in theatres in Iran for five months. Sahraa Karimi is also the first women in the history of Afghanistan who became The General Director of Afghan film, stated owned film organization through merit process in 2019. She is currently working on her next fiction film ” flight from Kabul”.
Testimonianza dell’artista
Le foto esposte sono tratte dalla collezione “Frammenti di vite vissute”. In tempi che non hanno precedenti a livello globale, le donne afghane sono ancora una volta a un bivio, fronteggiando scelte difficili per sostenere e portare avanti l’essenza stessa della vita. Negli ultimi 20 anni le donne afghane e, in particolare, una generazione fortunata e straordinariamente brillante di giovani ragazze, hanno raggiunto obiettivi lodevoli in tutti i ceti sociali. Mentre milioni di persone attendono con ansia di sapere cosa sarà della loro vita futura in Afghanistan, è già evidente come le donne e le ragazze afghane siano per ora l’unica grande categoria soggetto a restrizioni estreme.
La collezione “Frammenti di vite vissute” raccoglie le immagini di donne afghane che sono state catturate durante i miei viaggi in vari province in Afghanistan. Ho voluto catturare la bellezza nella vita reale, così come la storia e la forza delle donne afghane. L’archivio è composto da più di 10.000 foto e offre un inedito approfondimento sulla vita delle donne afgane che vivono sia in aree urbane che rurali dell’Afghanistan.
Amidst unprecedented times globally, Afghan women are once again at a crossroads, facing difficult choices to sustain and carry on the very essence of life. Over the past 20 years, Afghan women and, in particular, a fortunate and extraordinarily bright generation of young girls, have achieved laudable goals across all walks of life. While millions of people eagerly await what will be of their future life in Afghanistan, it is already clear that Afghan women and girls are for now the only large category subject to extreme restrictions.
The “Fragments of lived lives” collection collects images of Afghan women who have been captured during my travels in various provinces in Afghanistan. I wanted to capture beauty in real life, as well as the history and strength of Afghan women. The archive is made up of more than 10,000 photos and offers an unprecedented insight into the life of Afghan women living in both urban and rural areas of Afghanistan.
PARETE 5 – WALL 5
DAI– Guldusi Project






Deutsch Afghanische Initiative – Guldusi Project-Pascale Goldenberg collection
- Simin Abdur Sabur, Mappa di 2 villaggi / Map of 2 villages (Qala-e-kona and Kâkârâ), Kâkârâ – Parwan, 2011
- Opera collettiva, Il muro / Collective, The Wall, Qala-e-kona and Freiburg, 2007. (I 12 ricami prodotti dalle ricamatrici del villaggio di Qala-e-kona sono stati assemblati in un collage dall’artista Renate Hollstein a Friburgo / 12 embroideries produced by the embroiderers of the village Qala-e-kona, were incorporated by the artist Renate Hollstein in Freiburg)
- Roya Nasir, Uccello / Bird-Sampler, Sufian Payin – Parwan, 2012
- Simin Abdur Sabur, Mappa Afghana / Afghan map, Kâkârâ – Parwan, 2010
- Meshgan Abduf Rauf, Essiccando i pomodori per l’inverno /Drying tomatoes for the winter, Qala-e-kon – Parwan, 2020
- Opera collettiva, Te, verde-nero / Collective, Tea, green-black, (I 13 ricami prodotti dalle ricamatrici del progetto Guldusi sono stati assemblati in un collage a Friburgo / 13 embroideries produced by the embroiderers of the Guldusi project, were incorporated in Freiburg), 2009
Testimonianza di Pascale Goldenberg
Molte delle donne che vivono nelle zone rurali dell’Afghanistan sono ricamatrici altamente qualificate. La DAI (Iniziativa tedesco-afghana di Friburgo) mira a fornire loro l’opportunità di generare un reddito utilizzando le loro abilità di ricamo. Allo stesso tempo DAI auspica che questi progetti aiutino a salvaguardare dalla scomparsa delle tradizionali abilità di ricamo a mano. Vorremmo che queste piccole opere d’arte ricamate diventassero note al di fuori dell’Afghanistan affinché le persone possano divertirsi, trarre ispirazione e acquistare. Quando persone in altre parti del mondo incorporano questi ricami nel proprio lavoro tessile, due culture si connettono.
Sebbene molte delle ricamatrici nei villaggi siano consapevoli di far parte di un mondo più ampio, si rileva in loro un forte senso di identità nazionale che si riflette nella scelta di rappresentare mappe e bandiere tra i soggetti del ricamo. Osservando l’opera, il visitatore impara a conoscere i tre colori della bandiera afgana e come si scrive il nome del paese con i caratteri persiani. In farsi e anche in pashto – le due lingue ufficiali in Afghanistan – ‘gul’ significa fiore, e in farsi ‘dusi’ significa ricamo. Il termine ‘guldusi’ è usato dalle donne per i ricami in genere. Per questo abbiamo scelto il nome GULDUSI per il nostro progetto e sito web, augurando ai nostri visitatori una piacevole passeggiata nel giardino dei ricami. Le ‘nostre’ ricamatrici, riferendosi ai loro quadrati ricamati, parlano di ‘gul’, dicendo che hanno ricamato “tanti fiori”. Esistono diverse tipologie di ricamo, ma anche molte nomenclature locali diverse, praticamente un nome diverso per ogni motivo, a seconda del villaggio di provenienza della ricamatrice.
I villaggi di Laghmani. Il primo progetto di ricamo è stato sviluppato a Laghmani, una regione composta da un gruppo di diversi villaggi e si trova a circa 60 km a nord di Kabul, nella pianura nord (Shomali), nella provincia di Parwan. La DAI (Iniziativa tedesco-afghana) sostiene progetti nella pianura di Shomali dal 2002. Un centro femminile a Laghmani-hat offre alle vedove corsi semestrali di sartoria e cucito. Il progetto di ricamo è stato sviluppato all’interno di questo progetto.
Nel 2003 due donne che ancora praticavano il ricamo a mano sono state assunte come insegnanti per sei mesi offrendo ad altre donne interessate l’opportunità di apprendere o aggiornare le abilità. Da allora, le donne ricamano a casa nel proprio cortile. Il loro compito era ricamare piccoli quadrati (8 cm x 8 cm) con motivi e colori a loro scelta. I materiali (tessuti e fili da ricamo) sono stati forniti dalla nostra organizzazione. Nel 2004 è arrivato a Friburgo il primo drappo pieno di quadrati ricamati. Nel 2005 ho intrapreso il mio primo viaggio in Afghanistan per incontrare le donne. Oggi il progetto coinvolge circa 200 ricamatrici.
È possibile comprare i quadrati ricamati dall’Afghanistan direttamente da questa homepage per sostenere il Progetto Guldusi.
Many of the women living in rural areas of Afghanistan are highly skilled embroiderers. The DAI (German-Afghan Initiative from Freiburg) aims to provide opportunities for them to generate an income using their embroidery skills. At the same time we hope that these projects will help to safeguard traditional hand embroidery skills from disappearing.
We would like these small embroidered works of art to become known beyond Afghanistan for people to enjoy, get inspired by and purchase. When people in other parts of the world incorporate these embroideries into their own textile work, two cultures become connected.
While many of the embroiderers in the villages are aware that they are part of a larger world, they have a strong sense of their own national identity reflected in the appearance of maps and flags among the images. Looking at the work, the visitor learns about the three colors of the Afghan flag and how the name of the country is spelled in Farsi.
In Farsi and also in Pashto – the two official languages in Afghanistan – ‘gul’ means flower, and in Farsi ‘dusi’ means embroidery. The term ‘guldusi’ is used by the women for all kinds of embroideries or types of embroideries, thus for embroidery in general. Therefore we chose the name GULDUSI for our project and website. We wish you a pleasant walk through the garden of embroideries. ‘Our’ embroiderers in the villages when referring to the squares talk about having embroidered many ‘gul’. There are main categories of types of embroidery, but in addition they use many different names, virtually one for each pattern, depending on the village and the woman.
The villages in Laghmani. The first embroidery project was developed in Laghmani, a region consisting of a group of several villages and is located approximately 60 km north of Kabul in the Shomali plain in Parwan province. The DAI (German-Afghan Initiative) has been supporting projects in the Shomali plain since 2002 a women’s center in Laghmani hat offers widows six months courses in dressmaking and sewing. The embroidery project was developed within this project.
In 2003, two women who still practiced hand embroidery were employed as teachers for six months offering other interested women the opportunity to learn or refresh the skills. Since then, the women have been embroidering at home in their own yard. Their brief was to embroider small squares (8cm x 8cm) with motifs and colors of their choice. Materials (fabrics and embroidery threads) were provided by our organization. In 2004, the first cloth filled with embroidered squares arrived in Freiburg. In 2005, I. undertook my first journey to Afghanistan to meet the women. Actually, they are about 200 embroiderer.
It is possible to purchase the embroidered squares from Afghanistan directly from this homepage to support the Guldusi Project
ARAZZO A SOFFITTO
SEBASTIANO FURLOTTI
Una Guernica per l’Afghanistan

BIOGRAFIA DI SEBASTIANO FURLOTTI
In una Parma romantica sempre uguale passavano i giorni, privi di un qualcosa che vi lasciasse un segno concreto. In queste giornate piatte, la necessità costante di immaginare e mettere a frutto qualcosa di soddisfacente mi ha portato, sedicenne, a svaligiare il colorificio in fondo alla via, tentando di riscoprire una passione che negli anni, con alti e bassi, era stata parte della mia vita. Sfruttando un regalo ricevuto tempo addietro – che, ora mi rendo conto di avere, sbagliandomi, considerato poco – e ascoltando i consigli di un caro amico, ho riscoperto il piacere del creare, del ricercare il dettaglio, le innovazioni, sforzandomi in ciò di compiacere la bellezza quanto l’intelletto. Non appena ne ho la possibilità mi dedico ai miei lavori; abbandono Platone, Isocrate e Sallustio e dopo aver salito due rampe di scale mi ritrovo in una stanza con le pareti tapezzate di tele, in cui ormai anche i cuscini delle sedie sono impregnati dell’odore acre del colore. In questo studiolo disordinato tento, con tutto me stesso, di descrivere con un pennello i caotici pensieri dei miei diciotto anni.
Sebastiano Furlotti
In a romantic Parma that was always the same, the days passed, devoid of anything that would leave a concrete sign. In these flat days, the constant need to imagine and put something satisfactory to good use led me, at the age of sixteen, to rob the paint shop at the end of the street, trying to rediscover a passion that over the years, with ups and downs, had been part of the my life. Taking advantage of a gift received some time ago – which, now I realize I have, mistakenly, considered little – and listening to the advice of a dear friend, I rediscovered the pleasure of creating, of researching detail, innovations, making an effort to please beauty as much as intellect. As soon as I have the opportunity, I dedicate myself to my works; I abandon Plato, Isocrates and Sallust and after climbing two flights of stairs I find myself in a room with the walls covered with canvases, in which now even the cushions of the chairs are impregnated with the acrid smell of color. In this messy studio I try, with all my heart, to describe with a brush the chaotic thoughts of my eighteen years.
Sebastiano Furlotti
Testimonianza di Sebastiano Furlotti
Ho iniziato a ragionare su questo progetto alcuni mesi fa, con l’intenzione di creare qualcosa che, mediante la sue stessa grandezza, sensibilizzasse a questo importante tema contemporaneo a cui troppo spesso si rimane indifferenti. Così quest’opera, ripercorrendo la via già segnata dalla celeberrima Guernica di Picasso, vuole raccontare l’ormai tristemente nota situazione che l’Afghanistan vive ormai da decenni, e che in questi ultimi tempi rischia d’acuirsi ancor di più.
Leggendo la composizione da destra, la prima cosa che si nota è il grande volto che contempla il resto dell’opera, simbolo del mondo che guarda con indifferenza alla situazione del popolo afghano. Dopo il volto un sentiero rosso, come il rosso che nella bandiera del paese rappresenta il sangue versato dagli eroi per la patria, conduce al sole, che simboleggia la pace. Alla sinistra del sentiero una moschea, ai cui lati si stagliano due minareti. Sopra l’edificio la sagoma d’un cavallo bianco rappresenta uno spirito guida che accompagna il popolo alla pace. Nel cielo si nota poi un aquilone colorato, simbolo dell’Afghanistan e della libertà: un rimando ad “il Cacciatore di Aquiloni “, celebre romanzo dello scrittore afghano Khaled Hosseini. Sotto di esso, immersa nella sagoma d’un altro edificio, un volto feminile coperto dal velo guarda con desiderio ad un banco che simboleggia il diritto all’istruzione.
Non c’è stato un istante in cui l’idea mi sia balenata in mente così come la si vede ora, completa: è piuttosto frutto d’una lunga riflessione di un ragazzo diciassettenne alla ricerca di uno scopo. Ho iniziato a pensare l’opera in una notte di metà agosto, sdraiato sul pavimento del mio studio, fissando le pareti ove ormai il bianco del muro ha lasciato spazio ai colori delle mie tele. Già da settimane ormai i giornali parlavano dell’imminente avanzata talebana verso Kabul, degli attacchi, degli attentati, degli assassinii. Ho così deciso di dedicare, per quanto mi è stato possibile, la mia opera alla causa afghana. Immerso per ore nelle riflessioni, quella notte mi sono ripromesso che, qualsiasi cosa avessi fatto di quei pochi spunti che avevo trovato, l’avrei portata a termine. Nelle due settimane successive, passate lontane da Parma, ho continuato a raccogliere nuove idee, evolvendo e migliorando le precedenti. Avevo preso in considerazione graffiti, tele e sculture, ma nel momento in cui ho sviluppato un progetto me lo sono subito immaginato cucito su un arazzo. Così la cosa ha preso forma.
Tornato dalle vacanze ho immediatatamente acquistato tutto il necessario, compresa una macchina da cucire; fino a poche settimane prima, non avrei mai immaginato di farlo. Mi sono subito messo all’opera. E così, dopo ore di cuciture e di ritagli, dopo mattinate e pomeriggi passati concentrato unicamente su quest’opera, l’ho terminata. D’accordo con il preside Pier Paolo Eramo, che ringrazio molto, abbiamo contattato il Comune di Parma. L’assessore Guerra, il suo staff e i dirigenti, in particolare Cristina Calidoni, Flora Raffa, Marco Pegazzano e Francesca Spagnolo, hanno dimostrato grande interesse e disponibilità nei confronti della mia opera; per questo li ringrazio di cuore. E’ per merito loro che il il 16 e il 17 Ottobre, durante le giornate Fai, sarà possibile ammirare l’arazzo sul palazzo della provincia in piazzale della Pace.
Forse, nonostante tutto, un po’ stupito lo sono stato anch’io. Devo ammettere che fin da subito questo lavoro mi ha insegnato a guardare le cose da una prospettiva diversa. Ho capito che è sbagliato relegarsi a qualcosa, pensare di non riuscire a fare nient’altro. Non bisogna pensare di non poter fare qualcosa solo perchè sembra impossibile: guardandolo da un’altra prospettiva si capisce che non lo è affatto. Molti, soprattutto nei primi momenti, hanno visto questo progetto come qualcosa di utopico, che non sarei stato in grado di realizzare. Qualcuno, bonariamente, mi prendeva anche un po’ in giro. Adesso so che ho avuto ragione a proseguire per la mia strada. Nonostante ciò, sono stati tanti gli amici e i parenti che mi mi hanno aiutato; tengo moltissimo a ringraziarli tutti, per cui li citerò qui: Mariasole Zanzucchi per l’infinito aiuto e le giornate passate a cucire insieme, i miei genitori, mio fratello Alessandro, mia nonna Francesca,mio nonno Attilio, mia nonna Gabriella, mio nonno Francesco, mio zio Riccardo, gli amici Elisa Ferrari, Giulia Truglia, Vittoria Mora, Samuele Cipriani, Thomas Comelli, Pietro Maselli, Giulio Desensi, i Professori, in particolare i prof. Tonelli, Padroni e Reverberi e tutti coloro i quali, anche in minima parte, mi hanno aiutato e supportato nel realizzare questo progetto. Vi sono grato.
I started thinking about this project a few months ago, with the intention of creating something that, by its very size, would raise awareness of this important contemporary theme to which too often we remain indifferent. Thus this work, retracing the path already marked by Picasso’s famous Guernica, wants to tell the now sadly known situation that Afghanistan has been experiencing for decades, and which in recent times risks becoming even more acute.
Reading the composition from the right, the first thing you notice is the large face that contemplates the rest of the work, a symbol of the world that looks with indifference to the situation of the Afghan people. After the face, a red path, like the red that in the flag of the country represents the blood shed by the heroes for the homeland, leads to the sun, which symbolizes peace. To the left of the path is a mosque, flanked by two minarets. Above the building, the silhouette of a white horse represents a guiding spirit that accompanies the people to peace. In the sky you can also see a colorful kite, a symbol of Afghanistan and freedom: a reference to “the Kite Runner”, the famous novel by the Afghan writer Khaled Hosseini. Below it, immersed in the silhouette of another building, a female face covered with a veil looks with desire at a bench that symbolizes the right to education.
There was not a moment when the idea flashed into my mind as you see it now, complete: it is rather the result of a long reflection of a seventeen-year-old boy in search of a purpose. I started thinking about the work one night in mid-August, lying on the floor of my studio, staring at the walls where the white of the wall has now given way to the colors of my canvases. For weeks now the newspapers had been talking about the imminent Taliban advance towards Kabul, the attacks, the bombings, the assassinations. So I decided to dedicate my work to the Afghan cause as far as possible. Immersed for hours in reflections, that night I promised myself that, whatever I had done with those few ideas I had found, I would have completed it. In the following two weeks, spent away from Parma, I continued to collect new ideas, evolving and improving the previous ones. I had considered graffiti, canvases and sculptures, but when I developed a project, I immediately imagined it sewn onto a tapestry. So the thing took shape.
Back from vacation, I immediately bought everything I needed, including a sewing machine; until a few weeks ago, I never imagined doing it. I immediately got to work. And so, after hours of stitching and cutting, after mornings and afternoons spent concentrating solely on this work, I finished it. In agreement with the principal Pier Paolo Eramo, whom I thank very much, we contacted the Municipality of Parma. Councilor Guerra, his staff and managers, in particular Cristina Calidoni, Flora Raffa, Marco Pegazzano and Francesca Spagnolo, have shown great interest and availability towards my work.
Perhaps, despite everything, I too was a little surprised. I must admit that right from the start this work taught me to look at things from a different perspective. I understood that it is wrong to relegate oneself to something, to think of not being able to do anything else. Don’t think you can’t do something just because it seems impossible: looking at it from another perspective, you understand that it isn’t at all. Many, especially in the first moments, saw this project as something utopian, which I would not have been able to carry out. Someone, good-naturedly, even teased me a little. Now I know that I was right to continue on my way. Despite this, many friends and relatives have helped me; I really want to thank them all, so I will mention them here: Mariasole Zanzucchi for the endless help and the days spent sewing together, my parents, my brother Alessandro, my grandmother Francesca, my grandfather Attilio, my grandmother Gabriella, my grandfather Francesco, my uncle Riccardo, my friends Elisa Ferrari, Giulia Truglia, Vittoria Mora, Samuele Cipriani, Thomas Comelli, Pietro Maselli, Giulio Desensi, the Professors, in particular prof. Tonelli, Padroni and Reverberi and all those who, even minimally, have helped and supported me in carrying out this project. I am grateful to you.
Donne per la Giustizia. Testimonianze di attivismo
“IO C’ERO!” TESTIMONIANZA DI VALENTINA COSIMATI
Prima giornalista della Corte Penale Internazionale
In una grigia giornata nederlandese Thomas, guida ‘giuridica’ de* reporter ICTY, Churchillplein, L’Aja, mi propone un caffè durante una delle tante pause della sessione a porte chiuse. Testimonianza segreta, come i segreti di Pulcinella, niente feed audiovisivo, vietato l’ingresso in aula a giornalist* e pubblico accreditato. “Sto costituendo l’Associazione di Giornalisti alla Corte Penale Internazionale, ti va di rappresentare il webjournalism?”, mi chiede in perfetto italiano. Lì è così, nessun Ordine a decretare chi può accedere al diritto fondamentale di informare, di svolgere il proprio mestiere, di associarsi. Una cultura del diritto a cui è bello abituarsi. “Sì, grazie”. “Sei l’unica italiana e l’unica di una redazione internet, ti interessa il diritto penale internazionale, sei la persona adatta”. C’è grande attesa per il 1° luglio. Siamo parte della Storia e lo sappiamo. Lo Statuto di Roma, che non si pensava sarebbe entrato davvero in vigore – fare i conti senza testarde donne italiane non è saggio, soprattutto se quelle donne si chiamano Emma – sta per essere implementato, una delle rivoluzioni pacifiche più importanti del nostro tempo. Voglio farne parte? Certo! Voglio agire la Storia. La persona giusta, nel posto giusto al momento giusto. Il 1° luglio arriva. Non è pronto niente. L’Advanced Team, Pakhiso, Claudia, Sam e Claus, arriva nella sede della KPN, occupa uffici dismessi. Non sempre la Storia sa esprimere il senso del bello. Di lì a poco inizia il processo di recruitment. Faccio domanda. Accettata. Entro alla Corte, la prima italiana, per occuparmi di comunicazione digitale. ‘L’è tutto da fare’. Comunicare una organizzazione che esiste solo sulla carta, di cui non vi sono omologhi. Le persone continuano ad arrivare negli uffici della KPN ora ICC, bisogna spostarsi in continuazione, la moquette divelta, i fili penzolanti. Busso alle porte di chi sta costituendo la Procura, la Cancelleria, le Camere con una copia dello Statuto, una del Rules of Procedures and Evidences e una degli Elements of Crimes, non ancora completo. Bisogna sbrigarsi, l’elezione de* 18 giudici a NY è imminente. Chris è là, mi chiama: “They are all chicks!”, tante donne. Il cerimoniale della Regina fornisce una sponda organizzativa per la cerimonia di giuramento. Come sarà organizzata al suo interno la CPI? Quale la forma del diritto penale internazionale, della Storia? Impossibile saperlo ma importante comunicarlo. Quali i bisogni comunicativi delle varie sezioni? Busso alle porte. Non più di tre link per raggiungere l’informazione, non più di sette items di menù. Sintesi, please. È corretto quello che ho scritto in inglese? Bisogna tradurlo anche in francese. Non c’è tempo, * giudici stanno per arrivare. Mi sono fatta odiare da molte persone. Il sito è pronto, Bruno dà l’ok. A distanza di vent’anni la struttura è pressoché invariata. Good job ma ora l’ICC applica i meccanismi da organizzazione internazionale, l’era del pionerismo è conclusa.
Valentina Cosimati


